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L’Eucarestia: dalla celebrazione alla missione

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Edoardo Menichelli
Arcivescovo di Ancona - Osimo

L’Eucarestia:
dalla celebrazione alla missione

Lettera alla Diocesi
con lo sguardo al Congresso Eucaristico Nazionale 2011



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Carissimi
la Conferenza Episcopale Italiana ha scelto la nostra Diocesi come luogo delle celebrazioni del XXV Congresso Eucaristico Nazionale dal 4 all’11 settembre 2011.
Vorrei proporvi alcune riflessioni per iniziare a pensare insieme il mistero grande dell’Eucaristia per la vita della nostra Chiesa diocesana.
Desidero aprire un dialogo di approfondimento sull’Eucaristia con i sacerdoti, i diaconi, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli, proporre degli spunti di meditazione per poter camminare insieme fino al Congresso Eucaristico, e cominciare anche a vivere meglio nelle nostre comunità la grandezza, la bellezza e la spirituale sapienza della celebrazione del Mistero Eucaristico.
Tenterò di affrontare alcuni aspetti: la dimensione biblica, in specie Gv 6 da cui è stata presa la parola del vangelo di riferimento del Congresso Eucaristico; la dimensione liturgica che deve ritrovare maggiore attenzione nel momento di preparazione dell’Eucaristia stessa, nello stile della celebrazione, nel ritmo tra liturgia della parola e liturgia eucaristica, il senso di comunione che il Corpo di Cristo instaura con e nel corpo comunitario della Chiesa; la dimensione missionaria con gli aspetti più propriamente pastorali.

La dimensione biblica


La parola del Vangelo che ci accompagnerà in questi anni di preparazione al Congresso è presa da Gv 6,68: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”.
Il capitolo sesto di Giovanni è di grande importanza per le riflessioni che voglio condividere con tutti voi. Il testo è sostanzialmente costituito da tre parti: la moltiplicazione del pane da parte di Gesù a una moltitudine di cinquemila persone; l’attraversata notturna del mare; e, infine, il discorso del pane di vita tenuto a Cafarnao.
1. La moltiplicazione dei pani
Fin dall’inizio del racconto, l’evangelista mette in luce degli elementi importanti per la comprensione del testo. Prima di tutto Gesù viene presentato come un nuovo Mosè che attraversa il mare, sale il monte e vi sta seduto con i suoi discepoli nel tipico atteggiamento del maestro che vuole insegnare; in secondo luogo, si viene a formare attorno a lui una grande folla ed è proprio l’arrivo di questa moltitudine che gli fa operare il segno della moltiplicazione dei pani; infine, viene segnalata la vicinanza della Pasqua ebraica. Si tratta di un quadro in movimento caratterizzato dall’elemento pasquale: c’è il richiamo alla festa ebraica, l’attraversamento del mare che richiama il passaggio del mar Rosso, si mangia, radunati, pane e pesce. Di fronte al rifiuto o all’incomprensione dei discepoli di andare a comprare del pane per quella folla, Gesù parte da ciò che gli presenta Andrea: un ragazzo ha cinque pani e due pesci. Il pane è segno del nutrimento vitale per ciascun uomo, e il pesce è simbolo di una fraternità da costruire. Quei pani e quei pesci sono un nulla di fronte a quel numero enorme di uomini. Eppure Gesù li fa sedere in gruppi e l’evangelista ricorda che c’era erba in quel luogo. Si tratta di trasformare quel raduno in una convocazione e il prato rammenta il pascolo del salmo 22. Tutti vengono saziati e tra quella gente comincia a diffondersi una grande speranza: Gesù è veramente il messia atteso e bisogna subito riconoscerlo re. Purtroppo nessuno ricorda che non si vive di solo pane ma di ogni parola di Dio (Mt 4,4; Dt 8,3). E dal momento che Gesù non vuole essere il “re del pane”, ma è invece “il pane vivo disceso dal cielo”, si ritira tutto solo sulla montagna. La folla non lo trova più, rimane delusa; i discepoli non capiscono la scelta di Gesù di sottrarsi ad un tale successo. C’è in loro un certo disappunto. E’ per questo che – seppure sia vicina la notte - prendono la barca e vogliono ritornare indietro anche senza il maestro? Qui il racconto giovanneo è assai diverso da quello matteano che conosciamo maggiormente. La partenza li farà andare incontro alla tempesta e alla tenebra della notte; forse vogliono tirarsi indietro e non intendono più andare con lui? Questo accadrà veramente ad altri discepoli dopo il discorso di Cafarnao in Gv 6,66. Così Gesù avrà l’occasione di rivolgere ai Dodici la domanda cruciale: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67).
Dunque, che significato ha la moltiplicazione dei pani nel vangelo di Giovanni? L’evangelista vuole dirci che prima di annunciare la parola di Dio e condividere il dono del pane vivo disceso dal cielo, è necessario proporre l’esperienza dell’ospitalità e della condivisione umana. Sentirsi riconosciuti come persone, scoprire la gioia di un convenire insieme, provare la pratica di una conoscenza reciproca: solo così può nascere la comunità di Gesù. Ed è proprio lui che comincia a far uscire gli individui dall’anonimato della massa, e fa pregustare loro la gioia di mangiare il pane accompagnato dal riconoscimento fraterno. E’ probabile che l’evangelista ci voglia proporre l’importanza della convocazione del popolo di Dio, il formarsi di una comunità, come requisito essenziale alla celebrazione dell’Eucaristia.
2. La notte sul mare
Come la folla anche i discepoli non hanno compreso del tutto il segno della moltiplicazione dei pani. La notte sul mare è un’esperienza di allontanamento dal maestro e prova della loro fede in lui.
Tuttavia, il Signore non li abbandona alla tempesta della loro crisi discepolare e alle tenebre della loro incredulità. Viene in loro aiuto camminando sul mare, - invitandoli a non avere paura. Il testo afferma che avrebbero voluto prenderlo sulla barca, ma essa approdò velocemente alla riva verso cui erano diretti (Gv 6,21). Il fatto che egli non salga sulla barca - come molti studiosi hanno sottolineato - non deve essere sottovalutato: Gesù non vuole giustificare la decisione degli apostoli di aver preso la barca e di essere partiti.
Come le folle anche i suoi discepoli sono fermi alla realtà del pane che perisce, ne vorrebbero dell’altro, non sanno il motivo per cui il loro maestro si è ritirato sul monte. Ora, venendo verso di loro, camminando sulle acque, Gesù manifesta la sua capacità di tenere sotto controllo le forze contrastanti (rappresentate dalla tempesta e dalla notte) che hanno tentato di separare i suoi discepoli da lui, ed essi possono superare il momento di crisi: ritrovano il maestro, comincia un nuovo giorno, riappare la folla che nel frattempo li ha raggiunti a Cafarnao. Tutto sembra rimettersi a posto. Invece, è proprio la parola di Gesù che - riprendendo la tematica del pane - prospetta un orizzonte nuovo di senso.
3. Discorso sul pane di vita
Gesù apre il suo discorso con una precisazione fondamentale. Tutti lo stanno cercando perché vogliono nuovamente mangiare il “suo” pane e si vogliono saziare. Ma il pane moltiplicato perisce, mentre egli ha intenzione di donare un altro pane che dia una vita definitiva. Due sono i temi che si intrecciano nel discorso: il primo è quello della fede, il secondo, ad esso correlato, è quello del pane vivente disceso dal cielo.
Gesù afferma esplicitamente: “questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui, abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40). Da questo punto di vista, si tratta di vedere in lui non tanto un re capace di provvedere un pane fatto di farina che sazi la fame a livello organico, quanto il Figlio inviato nel mondo che si fa pane e che toglie definitivamente la fame di esistenza e di senso della vita presente in ciascun uomo, aprendolo verso la vita divina e la risurrezione finale. Il discorso contiene delle vere e proprie asserzioni che vanno in questa direzione: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai fame, e chi crede in me non avrà mai più sete” (Gv 6,35).
Non solo, Gesù è il pane vivente in quanto ha in se la vita divina quella eterna, e fuor di metafora si tratta della sua stessa carne donata per la vita del mondo: “Io sono il pane vivente, quello disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Pertanto, l’offerta della sua vita può raggiungere ciascun uomo (“Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna; e io lo resusciterò nell’ultimo giorno. Infatti la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda”, Gv 6,54), ma allo stesso tempo la sua carne è offerta per la vita del mondo.
Queste parole suscitano sgomento, rivelano la mancanza di fede negli ascoltatori, per cui “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non camminavano più con lui” (Gv 6,66).
È a questo punto che Gesù domanda ai Dodici se vogliono andarsene anche loro. Interrompere il cammino di sequela significa preferire e contare solo sul pane materiale; rimanere invece vuol dire aver fede in Gesù e aderire alle sue parole; rimanere significa ancora prepararsi a mangiare il pane/carne del Cristo.
Per questo la risposta di Pietro è la confessione di fede di tutta la Chiesa, dalla comunità degli apostoli fino alle comunità cristiane di oggi: “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 68-69).
Queste parole di fede di Pietro e di tutta la Chiesa - parole che ci guideranno fino alla preparazione ultima del prossimo Congresso Eucaristico Nazionale - hanno una rilevanza speciale. Non c’è altra meta che Dio e il suo regno e allontanarci da lui significa perdere noi stessi e trovare solo la morte. Inoltre, ci vuole la fede, che nel vangelo di Giovanni è un processo di conoscenza del Santo di Dio la cui vita eterna viene comunicata attraverso la fractio panis: mangiare il pane e nutrirsi della vita del Figlio.
Infatti, Gv 6 ci aiuta a compiere un itinerario personale e comunitario di iniziazione che dal pane moltiplicato, che sostiene il nostro organismo e di cui siamo sempre molto preoccupati di non averne abbastanza, si arriva all’ascolto della parola di vita che ci apre alla fede e ci fa conoscere un altro pane, il pane vivente del Cristo. Mangiando questo pane noi ci nutriamo della sua stessa vita eterna ed entriamo nell’alleanza di Dio.
Questo pane vivente è il pane che viene dato e comunicato dall’Eucaristia, il memoriale rituale della Pasqua del Signore.

La dimensione liturgica


Oggi la questione liturgica che riguarda l’Eucaristia verte attorno all’azione rituale. La riscoperta del rito nella celebrazione dei sacramenti è diventata cruciale. Infatti, si è iniziati alla fede cristiana non solo tramite il rito eucaristico (dal battesimo con la confermazione si giunge alla meta, al culmen, dell’eucaristia), ma soprattutto dal rito eucaristico (fons di ogni grazia di vita che viene da Dio). Da come si celebra, si delinea un volto di Chiesa e la configurazione stessa della sua esperienza di fede. Il rito eucaristico è costitutivamente il pasto sacrificale (cena, banchetto, mensa) che fa o ripresenta l’alleanza di Dio con noi nella memoria della pasqua del Cristo. Mi piace ricordare con voi il senso più propriamente liturgico degli elementi fondamentali e necessari per celebrare l’Eucaristia come rito pasquale della fede cristiana.
Ci vuole uno spazio adeguato, una chiesa o aula liturgica che accoglie e riunisce il popolo di Dio. Nel corso dei secoli l’Eucaristia è stata celebrata in tanti luoghi differenti: la casa, le catacombe, le basiliche romaniche o gotiche, le chiese barocche, fino all’architettura conciliare e post-conciliare. Non tutti questi luoghi hanno messo in sufficiente evidenza il carattere di banchetto dell’Eucaristia. Tuttavia la liturgia eucaristica necessita sia della mensa della Parola di Dio che è l’ambone, sia della mensa propriamente eucaristica che è l’altare. Quest’ultimo acquista un rilievo più evidente in quanto sta in una posizione centrale e ben visibile. Verso l’altare o attorno all’altare si orienta l’assemblea del popolo di Dio invitato a tale celebrazione. Ma anche l’ambone occupa un posto centrale per l’importanza che ha la proclamazione della Parola di Dio. È la Parola della nuova alleanza che ci introduce a quello specifico fare esperienza del mistero pasquale di Cristo. Pertanto, la liturgia cristiana dell’Eucaristia potrebbe essere rappresentata come un’elisse con due fuochi: quello della parola e quello della mensa del pane e del vino. Ma c’è anche un altro asse altrettanto importante che ha altri due fuochi, quello della presidenza e quello dell’assemblea.
Pertanto, il luogo dove si celebra è lo spazio in cui la comunità o Chiesa locale guidata dal vescovo o dal presbitero si raduna per la celebrazione eucaristica - nuova ed eterna alleanza -; l’assemblea nel suo convenire trova già il senso credente della sua convocazione perché esce da una sorta di anonimità individuale per trovare nello spazio celebrativo il proprio riconoscimento personale e comunitario, la sua propria identità, attorno all’ambone e all’altare: quella di essere il popolo di Dio.
Inoltre, la celebrazione eucaristica dischiude un’altra percezione del tempo. Noi viviamo l’Eucaristia qui e ora all’interno delle nostre comunità. In altre parole, l’alleanza di salvezza che Dio ha stabilito con noi nel mistero pasquale di Cristo ci viene offerta o ripresentata ora grazie al dono dello Spirito Santo, in questo luogo di convocazione, portata a conoscenza dalla parola di Dio, vissuta ritualmente dallo spezzare il pane e accolta dalla risposta di fede. Potremo dire che la parabola dell’alleanza di Dio con noi attraversa il tempo (dal presente al passato, dal presente al futuro), e si qualifica come tempo di comunione.
Dal presente al passato: perché nella memoria che facciamo della morte e della risurrezione di Gesù Cristo durante la celebrazione eucaristica, ci mettiamo in comunione con la temporalità sacrificale della morte di Cristo; ma è anche comunione con la temporalità della Risurrezione, che potremmo definire come completamento del tempo, apertura alla vita eterna e al Regno di Dio. Oggi celebriamo l’Eucaristia nella memoria della Pasqua di Cristo, ricordandoci che Gesù è morto e risorto in un dato momento della storia in cui è stata inaugurata l’alleanza definitiva.
Dal presente al futuro: perché l’alleanza iniziata nel passato e celebrata nel presente, è già data: tuttavia mira al suo compimento totale nel tempo avvenire di Dio stesso. Si tratta della comunione con il fine ultimo del tempo, l’avvento stesso del Regno di Dio.
C’è un terzo elemento costitutivo del convivio eucaristico: è quello della parola. Essa è prima di tutto parola proclamata dalle Sacre Scritture, parola annunciata nell’omelia, ma è anche parola cantata, e soprattutto parola divenuta preghiera.
Anche su un piano prettamente antropologico non si può partecipare ad una cena o ad un pranzo mangiando senza parlare con nessuno, rimanendo in silenzio. Il cibo è accompagnato dalla parola. La relazione parentale o amicale, lo stare con gli altri, il cibo che ci nutre e, in una festa, il brindisi finale, tutto converge a comunicare una parola di augurio e di vita per ogni convitato.
Gesù stesso nell’ultima cena parla ma in un modo del tutto diverso rispetto ad altre occasioni. La sua parola è performativa perché attua il senso del rito di comunione che egli sta compiendo: l’offerta della sua vita al mondo inaugurando l’alleanza nuova ed eterna tra l’amore di Dio e l’umanità intera.
Infine, bisogna mettere in evidenza che nell’Eucaristia si viene alimentati, c’è un nutrimento: si mangia il Corpo e si beve il Sangue di Gesù Cristo. Il dato originale del rito stabilito da Gesù è che usa il pane e il vino presenti come alimenti consueti in un pasto tra amici o famigliari; mangiarli vuol dire prenderli e nutrirsi di loro. Nell’ultima cena Gesù ri-significa il pane e il vino trasformandoli nel suo corpo e nel suo sangue, come perdita di sé che si dona per la vita dei suoi discepoli. Egli vuole farsi mangiare da coloro che credono in lui per poterli nutrire e alimentare con la propria stessa vita.
E questo accade in ogni celebrazione eucaristica per la potenza dello Spirito Santo.
E a nostra volta, noi che abbiamo ricevuto la forza di tale nutrimento vitale, veniamo coinvolti in questo processo di dono di noi stessi per la vita dell’altro.
Ora, se questi elementi ci possono far vedere l’Eucarestia nella luce del suo stesso mistero, ritengo che dobbiamo anche affrontare alcuni aspetti importanti delle nostre liturgie eucaristiche.
L’Eucaristia richiede una preparazione da parte del presbitero e da parte della stessa comunità.
Creare lo spazio più opportuno per la convocazione del popolo di Dio perché si senta accolto attorno all’altare. Quest’ultimo deve essere ben visibile sia come altare dove si celebra la memoria pasquale di Cristo, sia come mensa dove si riceve il suo corpo e il suo sangue. Infatti, attorno all’altare si forma l’identità stessa della Chiesa. Nei pressi dell’altare viene posto l’ambone, luogo prioritario per la proclamazione della parola di Dio. Per quest’ultima sarebbe bene preparare dei lettori che si rendono conto del messaggio dei testi che vanno a leggere per e davanti a tutti.
Bisogna anche curare una certa bellezza nella liturgia eucaristica specialmente in quella domenicale. Bastano pochi elementi ma predisposti bene e con semplicità: stendendo una tovaglia adeguata e pulita sulla mensa e lasciandola il più possibile libera, predisponendo il lume o sull’altare o più propriamente su un candelabro da collocarsi vicino ad esso e i fiori in un altro luogo davanti all’altare stesso oppure davanti all’ambone. Quando si richiama la preparazione che l’Eucaristia richiede, bisogna far riferimento anche al canto, alla musica e ai tempi di silenzio. Forse ci vogliamo mettere troppe cose dentro la celebrazione eucaristica: bisogna stare attenti a non appesantire il rito liturgico con interventi non del tutto corrispondenti. L’omelia deve essere biblica, diretta alla comprensione del vangelo. Soprattutto non deve rischiare di cadere nel moralismo e/o nello spiritualismo. Ritengo che una buona omelia sia il frutto di un adeguata lettura e meditazione personale sui testi biblici, magari condivise con quanti desiderano approfondire insieme la Scrittura attraverso una collatio comunitaria. Anche la preghiera dei fedeli deve esser raccordata coi testi biblici proclamati, e quindi preparata anzi tempo e presentata da laici che pregano in nome dei fratelli e sorelle convenuti per la celebrazione. Infine, si tratta di preparare anche gli assistenti al servizio liturgico (spesso non sanno cosa devono fare e come lo devono fare).
Lo stile celebrativo poi è essenziale perché l’Eucaristia comunichi anche il suo senso di mistero divino. Da questo punto di vista, è necessario usare un camice e una casula appropriati al celebrante (è meglio non usare un camice troppo corto o troppo lungo; si faccia attenzione a come si indossa la stessa casula per non dare il senso di trascuratezza) e che siano degni della celebrazione domenicale o festiva, verificando che siano anche puliti; prestare attenzione ai gesti che si compiono specialmente da parte di chi presiede, e al tono della propria voce che non deve essere troppo bassa, ma certamente non urlata: deve essere spontanea ma anche accogliente e propositiva. Fa parte sempre dello stile tenere una buona proporzione tra liturgia della parola e liturgia eucaristica. A volte si assiste ad una accelerazione indebita della preghiera eucaristica, quando proprio questa preghiera sta al centro di tutta la celebrazione. La distribuzione della stessa Eucaristia deve ricevere maggiore importanza e deve essere svolta con calma e partecipazione. Così pure bisognerebbe pensare di più il significato liturgico dei riti iniziali e finali della celebrazione, affinché si crei quella armonia necessaria tra canto, parola, gesti, saluto iniziale e benedizione finale.
Non sottovalutiamo poi il ritmo da dare alla celebrazione stessa. Oggi il rischio più corrente è quello di farci trascinare da un ritmo veloce quasi nevrotico. Leggere in fretta non aiuta certo a dare valore alla parola di Dio e alla parola omiletica, e tanto meno dare importanza alla preghiera eucaristica; celebrare in fretta dà la sensazione che poi abbiamo altro da fare di più importante. Si rischia di avere dei ritmi celebrativi troppo condizionati dal nostro stato di benessere psico-fisico: da un ritmo depresso, a quello accelerato - nevrotico, da quello impassibile a quello euforico. Mi chiedo: il ritmo liturgico non dovrebbe essere dato dalla intensità e autenticità della preghiera?
Una parola a parte meriterebbe “il canto” spesso senza il minimo aggancio liturgico o addirittura espressione di un sentimentalismo che non si lega affatto al mistero che si celebra.
Infine, lo scopo di tutta la celebrazione eucaristica consiste nel partecipare all’alleanza che Cristo ha inaugurato con la sua Pasqua, ed esperimentare il senso profondo di comunione che Dio vuole stringere con noi. Per questo, celebrare il mistero eucaristico vuol dire impegnarsi a superare le divisioni o le contrapposizioni all’interno del corpo ecclesiale.

La dimensione missionaria


Custodisco dentro di me una speranza: che dal Congresso Eucaristico derivi per tutta la nostra Chiesa, un nuovo impegno missionario. Se infatti la Chiesa è eucaristica, non può che essere una Chiesa missionaria. Nel documento “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia” (CEI – nota pastorale 30 maggio 2004, n. 4) si legge: “Nell’Eucaristia, dono di sé che Cristo offre per tutti, riconosciamo la sorgente prima, il cuore pulsante, l’espressione più alta della Chiesa che si fa missionaria partendo dal luogo della sua presenza tra le case degli uomini, dall’altare delle nostre chiese parrocchiali”.
Più volte ho riferito di una provocatoria risposta che un confratello Vescovo diede ad un interlocutore che gli aveva fatto una domanda un po’ impertinente. “Eccellenza, come mai non si preoccupa molto dell’ 85% della gente della sua Diocesi che non partecipa all’Eucaristia domenicale?”.
“E’ vero, rispose il Vescovo, ma desidero dirle che mi preoccupa di più sapere come esce dalla celebrazione eucaristica il 15% che vi partecipa”.
Faccio mia l’osservazione del confratello Vescovo e anch’io spero molto che quanti vivono l’Eucaristia nel giorno del Signore diventino un popolo capace di missione, “trasportando e incarnando” il Mistero celebrato nella testimonianza feriale della Fede: dall’Eucaristia si riceve grazia e si impara quell’essere “testimoni di Cristo e discepoli del suo Amore”. La celebrazione eucaristica infatti ci educa all’ascolto della Parola di Dio, all’offerta della propria vita, alla mutazione dei comportamenti di vita e allo stile di comunione. Come sarebbe diverso il mondo e come sarebbe missionaria ogni comunità se facesse dell’Eucaristia il programma di vita!
L’Eucaristia ci aiuta ad intrecciare profondamente il giorno del Signore (la sua Pasqua) il giorno della Chiesa (la sua Santità) ed il giorno dell’uomo (una storia condivisa).
Anche nel Convegno Ecclesiale di Verona, incentrato su “Cristo risorto speranza del mondo”, sono stati individuati ambiti di vita dentro i quali si può ben misurare la qualità della fede e della testimonianza, quasi a raffigurare una Chiesa che, come diceva Paolo VI “è esperta di umanità” e capace di incarnare nel vissuto dell’umanità il mistero dell’Amore di Cristo.
Nella prospettiva missionaria è necessario che le comunità cristiane riconoscano nell’ Eucaristia il cibo di vita eterna e trovino in essa la norma ed il giudizio della vita ecclesiale.
Nell’ Eucaristia c’è il Cristo che muore e risorge per tutti e che si fa Signore glorioso dell’intera umanità.
Una comunità che fa esperienza del Cristo vivente esce dal tempio con l’ansia apostolica: questa è la vera ed auspicata conversione!
Chi fa esperienza di Cristo, vive di Cristo e si fa discepolo e testimone vero di Cristo.
L’Eucaristia trasforma la vita del credente e lo rafforza nella scelta evangelica.
L’Eucaristia, come dice S. Giustino, offre la direzione etica alla vita di colui che vi partecipa con consapevole adesione spirituale, di modo che egli “si fa provveditore per tutti quelli che sono nella necessità” (I Apol. 67,6)
“La missione se non è orientata dalla carità, se non scaturisce cioè da un profondo atto di amore divino, rischia di ridursi a mera attività filantropica e sociale”. (Benedetto XVI)

La dimensione pastorale


Nella prima parte di questa mia lettera ho suggerito le dimensioni biblica, liturgica e missionaria perché ogni celebrazione traduca la bellezza del Mistero e non ne rallenti il frutto. Qui, ora, anche come impegno pastorale di questo primo anno Diocesano in vista del Congresso Eucaristico Nazionale, suggerisco alcune proposte sulle quali le zone pastorali, le singole parrocchie, i movimenti e le esperienze ecclesiali vorranno riflettere e trovare le modalità di attuazione: Settimana Eucaristica, Lectio Divina, Scuola di preghiera, Solennità del Corpus Domini, Caritas parrocchiale, “Busta del pane”.
1 - Settimana Eucaristica: nell’Eucaristia è vivo e glorioso Cristo Signore: Egli è nostro cibo di salvezza, Egli è il nostro quotidiano viatico; Egli è la speranza a cui ci affidiamo. La Settimana Eucaristica non vuole essere una ritualità in più, piuttosto un tempo nel quale la comunità fissa lo sguardo su Cristo Signore che la convoca, la nutre e la raccoglie in unità. Dallo sguardo di fede nasce l’adorazione: atteggiamento di rinnovato amore a Cristo Signore.
La settimana di preghiera, di meditazione, di adorazione si fa grazia per alcuni versanti del vivere ecclesiale che risultano indeboliti: la vocazione alla santità, il compito della missione, il gesto di solidarietà, il servizio di fraternità.
La Settimana Eucaristica, inoltre, si pone come animazione della pastorale zonale e come occasione di reciproco aiuto tra parrocchie. Saranno i Vicari zonali d’intesa con gli uffici diocesani, ad intraprendere un’azione di programma e di armonizzazione della settimana eucaristica, di modo che essa passi di parrocchia in parrocchia in una continuità di adorazione.
2 - Lectio Divina. Nella lettera “Con tenerezza di Padre e missione di Pastore” con la quale presentavo la visita pastorale scrivevo che andava recuperato il primato di Dio. Torno su questo argomento e lo traduco come impegno pre-Congresso Eucaristico Nazionale. La fede nell’Eucaristia nasce dall’ascolto e dalla meditazione della Parola di Dio. Non basta distribuire Bibbie, occorre leggere – meditare – vivere la Santa Parola. A livello parrocchiale o interparrocchiale va proposta con continuità la “Lectio Divina”: essa sarà seme di novità e di grazia.
Ma anche a casa, in famiglia la Parola di Dio diventi cibo dell’anima. Affido ai ragazzi che hanno ricevuto o si preparano a ricevere il Sacramento della Santa Cresima di “farsi autorità” a casa perché tutti insieme si “consulti” la Bibbia affinché essa sia regola della vita. Sarebbe anche bello e auspicabile che, a cominciare da me, ogni parroco si facesse premura di “invitarsi” nelle famiglie per leggere insieme per un minuto la parola di Dio.
3 - Scuola di preghiera. In questo anno pastorale, con l’aiuto di qualche esperto, propongo a livello Diocesano una scuola di preghiera, non tanto per suggerire “tecniche di orazione” piuttosto perché il pregare sia ricco dello stile di Gesù e aiuti ad accogliere e vivere in pienezza la volontà di Dio. Una Chiesa che non piega le proprie ginocchia per invocare “luce”, vanifica ogni sua azione pastorale. L’esperienza verrà proposta durante la Quaresima e ci sarà di sostegno il Priore del Monastero di S. Croce di Fonte Avellana, p. Alessandro Barban.
4 - Corpus Domini. Su questa solennità debbo confessare di scrivere qualche nota nel ricordo di come la piccola comunità che ha nutrito la mia fede, la preparava e la celebrava.
Era la festa più grande, più bella: tutti in quel giorno dovevano presentare i segni della bellezza e dovevano proclamare la fede nell’ Eucaristia. Era commovente vedere uomini e donne inginocchiarsi al passaggio del SS. Sacramento; era un gesto tanto semplice quanto ricco di fede. Questo ricordo mi fa venire alla mente una frase del Manzoni, che lui amava ripetere sempre: “L’uomo non è mai tanto grande come quando sta in ginocchio davanti alla Maestà di Dio”.
E poi la gara a spandere fiori davanti al SS. Sacramento. Nessuno può pensare di “rifare” tutto ciò! Tuttavia occorre credere che la solennità del “Corpus Domini” deve ritrovare la sua dignità.
Per questo suggerisco:
a) – Il segno “visibile” della Processione del Corpus Domini si faccia nelle comunità parrocchiali con le modalità suggerite dalla liturgia e dalle sane tradizioni locali.
b) – L’evento sia preceduto da opportuni momenti di riflessione biblica al fine di dare senso al “Segno” che si andrà a compiere. Si faccia capire in particolare come questa manifestazione pubblica è segno della fede della comunità che prega, celebra e testimonia.
5 - Caritas Parrocchiale o interparrocchiale.
“L’Eucaristia che non si traduca in un amore concretamente praticato è in se stessa frammentata” (Benedetto XVI – “Deus Caritas est” n. 14)
La Caritas parrocchiale è uno strumento educativo che aiuta la comunità a capire il senso evangelico del farsi prossimo ed anche a dispensare segni di solidarietà. In questo anno diocesano che vogliamo vivere come prima tappa verso il Congresso Eucaristico Nazionale, ogni parrocchia si voglia misurare su questo ed anche attrezzarsi perché la Caritas “ sia segno vero di una missione viva” e costituisca un’esperienza di bellezza e di verità del credere.
“Se dici fammi vedere il tuo Dio, io ti dirò: fammi vedere l’uomo che è in te, e io ti mostrerò il mio Dio”. Così diceva Teofilo di Antiòchia. Bisogna mettersi dalla parte degli ultimi e degli esclusi perché solo così si potrà costruire una società di fratelli che vivono in giustizia e pace. Sarà la Caritas diocesana a farsi animazione, sollecitazione e proposta.
6 - “Busta del pane”. L’evento che ci coinvolge non può solo configurarsi nel momento di riflessione o di celebrazione. L’Eucaristia assume particolare significato nella sua ferialità: celebra la vita, celebra la carità con atti e gesti che ne esprimono l’amore di Cristo verso l’uomo, salvandolo nella sua totalità.
Pertanto la comunità che è segno della presenza di Dio, rivolge la sua attenzione verso chi è avvolto dalla solitudine, dalla emarginazione, dalla sofferenza. Il gesto espressivo di questo amore “eucaristico” si può configurare come un progetto-segno che si individuerà con i responsabili della Caritas Diocesana (qualcuno ha suggerito una casa di accoglienza per donne in difficoltà e cariche di situazioni di solitudine e di disagio sociale). Potremmo guardare a questo progetto come ad una “busta del pane” che va riempita con la generosità e la collaborazione di chi “partecipando all’Eucaristia” si fa Eucaristia per gli altri.

Affido questa mia lettera e le proposte pastorali a tutti voi, pregando Dio, Padre misericordioso, affinché, con la generosa collaborazione tra sacerdoti e fedeli, cresca nella nostra Chiesa lo Spirito eucaristico e che all’interno di essa si celebri l’icona della casa di Elisabetta (casa del servizio) e quella della casa di Betània (casa della gioiosa accoglienza).
Con la mia benedizione.

+ Edoardo, Arcivescovo
Ancona 24 settembre 2008
DEDICAZIONE DELLA CHIESA CATTEDRALE DI ANCONA